Sempre più applicazioni utilizzano l’AI e chiedono accesso a dati personali sensibili. Ma ne vale davvero la pena?
L’intelligenza artificiale sta invadendo ogni angolo della nostra vita digitale: smartphone, app, browser, perfino nei fast food. Ma mentre ci viene venduta come comoda e indispensabile, le AI moderne stanno chiedendo accessi sempre più invasivi ai nostri dati personali. E forse, è ora di fermarsi a riflettere: ne vale davvero la pena?
L’illusione dell’assistente AI perfetto
Da strumenti di sintesi a chatbot intelligenti, le AI si presentano come soluzioni che fanno risparmiare tempo. Eppure, per funzionare, molte di esse vogliono accedere a tutto: email, calendario, rubrica, cronologia di navigazione, perfino directory aziendali complete.
Un esempio lampante è Comet, il browser AI-powered sviluppato da Perplexity. Dietro alla promessa di automatizzare attività come la lettura delle email o l’organizzazione del calendario, si nasconde una lista inquietante di permessi richiesti, tra cui:
- Invio e gestione delle email tramite il tuo account Gmail.
- Accesso completo a tutti i tuoi calendari.
- Download dei contatti personali.
- Copia della rubrica interna della tua azienda.
Anche se i dati vengono salvati in locale, stai comunque cedendo diritti d’uso e analisi a un’azienda privata, spesso per migliorare i modelli AI a vantaggio di altri utenti.
Un parallelismo inquietante: dalle torce finte alle AI invadenti
Un tempo ci si preoccupava di app “torcia” o “calcolatrice” che chiedevano l’accesso alla posizione o alle foto. Ora lo scenario è simile, ma mascherato da tecnologia d’avanguardia. Dietro la cortina della modernità, molte app replicano schemi invasivi già noti nel mondo delle app gratuite: monetizzare i tuoi dati, anche quelli più intimi.
Come ha sottolineato Meredith Whittaker, presidente di Signal, usare questi assistenti AI equivale a mettere il proprio cervello in un barattolo. Un assistente digitale che prenota una cena o un biglietto potrebbe in realtà accedere al tuo browser (e quindi ai tuoi salvataggi, cronologia, password), al calendario, alla carta di credito e ai contatti.
Il tutto per evitarti di pensare o agire autonomamente, in cambio di una comodità spesso sopravvalutata.
Il vero costo: AI, privacy, sicurezza e fiducia
Concedere un livello così profondo di accesso significa rinunciare, istantaneamente e irreversibilmente, al controllo sui propri dati. Una volta autorizzato, l’intelligenza può leggere anni di messaggi, email, appuntamenti e documenti personali. Peggio ancora, in molti casi l’intelligenza artificiale può agire in autonomia al tuo posto, spesso senza darti un controllo reale.
E quando qualcosa va storto (succede, spesso), gli ingegneri delle aziende AI analizzano manualmente i tuoi input privati, nel tentativo di capire gli errori del sistema. Un fatto che solleva serie domande su riservatezza, trasparenza e fiducia.
Il problema non è solo tecnologico, ma anche economico: le aziende dietro queste AI vivono dei tuoi dati, li usano per addestrare modelli sempre più sofisticati, vendendo poi quei risultati ad altri. È un modello basato sullo scambio di qualcosa che per te è irrinunciabile — la tua privacy — con un ritorno spesso marginale.
È davvero utile, o solo pericolosa?
La verità è che l’equilibrio tra comodità e sicurezza si è rotto. Se un’intelligenza artificiale ti chiede accessi eccessivi, dovresti trattarla come una torcia sospetta che vuole sapere dove ti trovi. Ogni volta che permetti a un’app AI di entrare nella tua vita privata, chiediti cosa ottieni in cambio e se vale davvero il rischio.
Forse il vero risparmio di tempo è evitare queste scorciatoie.
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